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venerdì 10 maggio 2013

L'evoluzione del timbro vocale 8


LE VOCI ARCOBALENO

DOMANDA: IN CHE MODO LEON THOMAS HA AFFERMATO DI AVER SCOPERTA LA TECNICA DELLO JODEL?

Dopo questa rapida carrellata di personaggi ordinati in base al percorso che abbiamo denominato di intimizzazione del timbro vocale, prendiamo ora in considerazione alcuni esempi di cantanti che fanno dell’inafferrabilità timbrica la loro dote migliore. Questo, evidentemente, non significa che i prossimi casi analizzati non presenteranno un timbro di partenza specifico e personale come in quelli precedenti e come in ogni persona, ma sta a significare che prendendo in toto il significato di jazz come improvvisazione, hanno fatto la scelta di improvvisare non solo melodicamente e ritmicamente ma anche timbricamente. Potremmo individuare una sorta di percorso anche in questo capitolo, non più verso l’intimismo timbrico ma verso l’improvvisazione timbrica. Dopo il netto distacco conseguito nel tempo dal substrato lirico arriviamo adesso ad un completa e totale inserimento della voce nella musica jazz riscoprendolo ancora una volta e forse più che mai come lo strumento più malleabile e ricco di sfaccettature che più di tutti incarna le possibilità di variazione sonora elevandosi allo strumento potenzialmente principe dell’improvvisazione.

Mark Murphy
Noto ai più per le sue improvvisazioni in vocalese (improvvisazioni dal carattere strumentale ma dotate di un testo scritto) Mark Murphy (nato il 14 marzo 1932) è un pop-jazz crooner di rara e veemente flessibilità vocale.
La sua voce baritonale dalla grana spessa ed elegante gioca spesso con i fruscianti pianissimo, i vigorosi shouts e i falsetti vibranti che mimano gli shakes di tromba. Nell’ultima parte della sua carriera esaspera ancora di più le diversità timbriche della sua voce soprattutto durante le improvvisazioni miscelando sapientemente i suoi colori. Con un’ottima dose di swing riesce ad utilizzare suoni che se presi separatamente possono risultare fastidiosi ma che nel contesto rappresentano dei punti di climax perfettamente coerenti con il discorso improvvisativo da lui intrapreso.


Leon Thomas
Baritono poderoso e pieno di sfumature Amos Leon Thomas Jr (4 ottobre 1937 – 8 maggio 1999) ha realizzato una sintesi tra le diverse tradizioni del canto nero afroamericano miscelando la virile dolcezza dei moderni crooner agli effetti melodrammatici dei blues shouter. Si è fatto soprattutto notare per un’ipertrofia di scat che da una voce di petto e una voce di testa oscilla ossessivamente nello jodel riuscendo ad imbastire perfette frasi melodiche caratterizzate quindi da salti continui. Lo jodel, tecnica usata in varie parti del mondo nei canti tradizionali, rompe definitivamente il concetto di unità della voce spezzandola in due diverse personalità in una schizofrenia timbrica che segnerà da quel momento in poi la ricerca di tutti quegli sperimentatori vocali che si susseguiranno a lui. In una intervista ha dichiarato di aver scoperto questa tecnica dopo essere caduto e aver rotto i denti appena prima di un importante spettacolo.


Al Jarreau
Cantante jazz prima di essere una celebrità del music business, Al Jarreau, nome d'arte di Alwyn Lopez Jarreau (Milwaukee, 12 marzo 1940) produce un pop raffinato in linea con le mode, nonostante ciò, il suo approccio vocale non cede sempre al facile. La sua voce neutra, stimbrata e senza gran vibrato, si esprime mirabilmente nell’arte dello scat e delle percussioni vocali prediligendo d’altronde la poliritmia derivata dalla tradizione africana. È senz’altro dotato di una grande estensione e di una grande flessibilità che gli permettono repentini cambi di registro. Spesso usa la sua voce per imitare gli strumenti non soltanto dal punto di vista ritmico e melodico ma anche timbrico giocando durante gli scambi con uno strumento, o con l’altro a ricalcarne melodia e suono. A suo favore in questo campo gioca la naturale propensione alla nasalizzazione del suono che ben si compara con la tipica caratterista di penetranza dei fiati.







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RISPOSTA: CADENDO APPENA PRIMA DI UN CONCERTO E ROMPENDOSI DEI DENTI :-) 


giovedì 9 maggio 2013

L'evoluzione del timbro vocale 7


Chet Baker: la voce d’angelo del jazz

DOMANDA: QUAL'E' LA CARATTERISTICA TIMBRICA CHE SALTA ALL'ORECCHIO SENTENDO SUONARE E CANTARE CHET BAKER?

«Siamo di fronte a un trombettista che anche canta o ad un cantante che anche suona la tromba?», domanda legittima quella posta da Donald Vincent espressa nella presentazione della riedizione del 2010 del disco Chet Baker Sings. It Could Happen to You. In effetti ciò che avvertiamo ascoltando Chesney Henry «Chet» Baker Jr. (Yale, 23 dicembre 1929  Amsterdam, 13 maggio 1988) è un'inscindibilità, un legame forte, tra voce e tromba, due espressioni di un'unica personalità, diversa da quelle di qualsiasi altro jazzista conosciuto. «Perché il suo approccio allo scat», scrisse Bill Grauer già nelle note di copertina del 1958 «sta a metà strada tra il modo di suonare e il modo di cantare».
Diversamente da ciò che abbiamo già analizzato in Louis Armstrong, ovvero quel netto stacco stilistico e sonoro tra voce e strumento, la relazione tra canto e tromba in Chet Baker trova la sua coerenza proprio nel timbro. Entrambi i suoni infatti sono sommessi, sottili, quasi timidi ma sempre definiti e molto comunicativi. La sua voce d’angelo, come è stata definita probabilmente anche in antitesi con la sua personalità autodistruttiva (fatale gli sarà la sua dipendenza dall’eroina), rappresenta un violento salto in avanti nel nostro percorso di modernizzazione del timbro ed anche un vero punto d’arrivo per quel che riguarda la nostra analisi, sia la tromba che la voce emanano un calore tenue quasi da fiamma di candela e introducono una situazione di intimità. Una grande caratteristica dell’arte di Baker sicuramente fu la dedicabilità di ogni sua performance, sembrava infatti che Chet suonasse sempre e solo per te in quei precisi momenti.



Il suo timbro cristallino, che nel tempo andrà a modificarsi a causa degli abusi di droga che porteranno anche all’estrazione dei denti anteriori in seguito ad una presunta rissa con uno spacciatore conservando intatto il suo fascino ipnotico, quasi sempre privo di vibrato, chiaro e velato, data la sua abitudine di non aprire mai troppo la bocca, sono in completa antitesi con l’ormai vecchia tradizione belcantistica e si stacca nettamente anche dal mondo patinato dei crooner pieni di sovrastrutture. Baker divenne un caposcuola tra i cantanti jazz che trovarono in lui uno stile vocale nuovo e completamente inseribile all’interno del jazz senza sentire l’eco lontano di altre influenze e permettendo, a chi segue ancora oggi il suo esempio, di approfondire ancora di più la visione di una voce-strumento coerente con la propria sensibilità perché, probabilmente, è proprio per se stesso che Chet Baker suonava e cantava. C’è chi dice che lo facesse per guadagnare soldi per l’eroina, sconfinata è la discografia infatti di Baker anche con etichette e gruppi semisconosciuti, e chi, invece, sente nella sua voce la costante malinconia di chi, conscio del proprio disagio, sa che non potrà mai farne a meno. La sua era una flebile preghiera di raccomandazione per se stesso o forse era la voce del suo angelo. 



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RISPOSTA: LA CARATTERISTICA CHE SALTA SUBITO ALL'ORECCHIO E' L'ESTREMA COERENZA TIMBRICA TRA IL SUONO DELLA TROMBA E LA SUA VOCE,

lunedì 6 maggio 2013

L'evoluzione del timbro vocale 6


Nat King Cole: lo charm del sottovoce

DOMANDA: QUALE FU LA FURBERIA TECNICA USATA DA NAT KING COLE PER RENDERE AFFASCINANTI LE SUE INTERPRETAZIONI?

«La mia voce non ha nulla di cui andare fieri. Ha circa solo due ottave di estensione. Credo che sia il rauco, il rumore ansimante che piace ad alcuni». 
Questo diceva di sé Nat King Cole ed è strabiliante leggere una dichiarazione del genere fatta da un cantante su se stesso, ma ciò che Nat King Cole, nome d'arte di Nathaniel Adams Coles (Montgomery, 17 marzo 1919  Santa Monica, 15 febbraio 1965), aveva perfettamente capito di se stesso era che il valore assoluto della sua voce risiedeva proprio nel timbro. Fa impressione leggere quel «piace ad alcuni» se pensiamo che Cole fu uno dei cantanti più influenti della sua epoca, e non solo, andando a determinare un passo molto importante nel percorso che abbiamo definito verso l’intimismo timbrico.
Con Nat King Cole infatti facciamo un passo indietro ma due in avanti, se dal punto di vista prettamente sonoro la sua voce voleva essere calda e affascinante come si usava un tempo, dall’altro ha raggiunto questo obiettivo senza appesantirla in modo artefatto ma sfruttando al massimo la tecnologia microfonica e riducendo al minimo il volume della voce. «Aveva un modo tutto speciale di carezzare ogni parola», scrive Henry Pleasants, «di avvolgervi attorno alla propria voce. Così intima era questa identificazione con la musica implicita nella lingua inglese che è impossibile evocare il ricordo della sua voce senza quello delle parole che ad essa si accompagnano».


Nat King Cole pensava che il segreto del calore della voce risiedesse nel fumo. Era infatti un fumatore accanito di sigarette al mentolo e credeva che un consumo di almeno tre pacchetti al giorno avrebbe dato alla sua voce una tonalità più ricca. Arrivò al punto di fumarne diverse proprio prima di registrare, vizio che gli costò la vita dato che morì a soli 45 anni per un cancro ai polmoni. Il suo charme risiedeva, invece, nella confidenzialità della sua voce baritonale beige tenuta sempre a freno nel volume sfruttando la grande apertura della bocca per far fuoriuscire il suono al meglio senza la necessità quindi di spingere il fiato. Il risultato era un sussurro in mezza voce che catturava l’attenzione dell’ascoltatore e una volta ottenuta non la lasciava più andare tenendola sempre viva con continui ammiccamenti.
Come sottolineava Henry Pleasants, Nat ha oltretutto insegnato a curare a fondo la dizione, da sempre ignorata, per renderla plastica, sonora e musicale: parte integrante del quadro interpretativo. Non dimentichiamo poi l’intonazione: ricordiamo infatti la grandissima importanza e bravura anche del Nat King Cole pianista che contribuì a definire lo standard del trio jazz.




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RISPOSTA: NAT KING COLE CONSCIO DEI LIMITI DEL SUO STRUMENTO PUNTANDO TUTTO SULLA SUA CARATTERISTICA MIGLIORE OVVERO IL TIMBRO, NE SFRUTTO' TUTTE LE SFUMATURE RIDUCENDO DRASTICAMENTE IL VOLUME RISULTANDO UNA VOCE INTIMA E RASSICURANTE.

giovedì 2 maggio 2013

L'evoluzione del timbro vocale 5


Billie Holiday: la voce scomoda della strada

DOMANDA: GRAZIE A COSA BILLIE HOLIDAY RIUSCIVA AD INTERPRETARE I BRANI IN MANIERA COSI' PERSONALE E TOCCANTE?

La carriera e la vita di Billie Holiday, nome d’arte di Eleanora Fagan o Elinore Harris, nota come Lady Day (Filadelfia, 7 aprile 1915  New York, 17 luglio 1959) furono segnate dalla dipendenza dall'alcool, dalla droga, da relazioni burrascose e da problemi finanziari. Billie ebbe un'infanzia travagliata e dolorosa: venne trattata duramente dalla cugina della madre alla quale quest'ultima l'aveva affidata mentre lavorava come domestica a New York. Subì uno stupro a dieci anni e, in seguito, dovette evitare diversi altri tentativi di violenza. Ancora bambina, raggiunse la madre a New York, e cominciò a procurarsi da vivere prostituendosi in un bordello clandestino di Harlem. Guadagnava qualche soldo in più lavando gli ingressi delle case del quartiere: non si faceva pagare solo dalla tenutaria del bordello, che in cambio le lasciava ascoltare i dischi di Bessie Smith e Louis Armstrong sul fonografo del salotto. Quando la polizia scoprì il bordello, Billie venne arrestata e condannata a quattro mesi di carcere. Rimessa in libertà, decise, per evitare di tornare a prostituirsi, di cercare lavoro come ballerina in un locale notturno. Non sapeva ballare, ma venne assunta immediatamente quando la fecero cantare e, ad appena quindici anni iniziò la sua carriera di cantante nei club di Harlem. Questa piccola introduzione biografica era necessaria per far capire da dove potesse uscire una voce così particolare come quella di Billie Holiday ovvero dalla sua storia personale.
Diversamente da altre sue colleghe come Ella Fitzgerald, Billie non veniva dal mondo della popular song che per forza di cose doveva essere accattivante e penetrare nell’ascoltatore ma senza impegnarlo troppo, lei veniva dal gospel e dal blues, ossia dall’area rurale e chiesastica del canto e nei brani che interpretava poneva tutta l’intensità del dramma, senza preoccuparsi di assecondare i gusti del suo pubblico. Il suo timbro risultava grezzo, senza sovrastrutture a volte pure fastidioso pieno di armoniche acute ma terribilmente vero, diversamente da Frank Sinatra che riusciva con il suo fascino vocale a convincerci della veridicità della sua interpretazione, Billie Holiday non aveva alcun bisogno di cercare di convincere l’ascoltatore perché portava sempre sul palco con la sua voce straziata e straziante la sua vita problematica.
Billie non era un’atleta del canto anche se fino alla fine degli anni ‘40 non le farà difetto una potente vocalità, ma si distingue dai suoi contemporanei seducendo per sensualità, espressività inquietante e la trasgressività. La voce con lei diviene uno strumento capace di infondere carattere alle melodie più stucchevoli arrivando a modificare i temi per adattarli alle proprie intenzioni. Questa senz’altro era anche una critica mossa alle consuetudini interpretative dell’epoca.

 
Con Billie Holiday l’impostazione vocale artefatta ereditata dal bel canto va completamente in frantumi, ne rimangono certamente alcune caratteristiche stilistiche come il vibrato spesso presente e una certa potenza vocale almeno nella prima parte della sua carriera che comunque veniva dosata in base all’interpretazione ma la cosa importante è che venivano spostate altrove le direttive della bella voce. Il timbro – un ocra chiaro, screziato – era di per sé un piccolo miracolo, solcato da cento impurità, ora velato, ora raschiante e ombreggiato, ora aperto in un candore fragile, stupito in un «flessibile tono d’oboe», come la definì il noto critico di musica jazz Whitney Balliett che nel suo stesso cangiare rivelava palpiti e spaccature emotive e l’irrequietezza di una naturale intelligenza musicale.
Se è vero che l’abuso di droghe finirà per alterare le sue possibilità vocali restringendone la tessitura e perdendo flessibilità, la sua espressività invece acquistò profondità. Al di la delle sbavature e dell’evanescenza delle sue prestazioni vocali, rimane inalterata se non addirittura amplificata la potenza emozionale impressa nell’asprezza del suo timbro temprato dalle prove e dalle sofferenze della vita. La sua arte affondò molto di più su di un investimento totale in quello che diviene l’attimo intenso di un dramma gigantesco, sconvolgente e autentico: il dramma di Lady Day, il suo.


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RISPOSTA: L'UNICITA' DELLA VOCE DI BILLIE E' DOVUTA ALLA SUA VITA BURRASCOSA E ALLA SUA CAPACITA' DI CONVOGLIARLA NEI BRANI CHE INTERPRETA. PER CAPIRE MEGLIO COSA INTENDO GUARDARE IL VIDEO QUI SOPRA TRADUCENDOSI IL TESTO!

mercoledì 24 aprile 2013

L'evoluzione del timbro vocale 4


Frank Sinatra: The Voice

DOMANDA: QUAL'E' LA CARATTERISTA PIÙ IMPORTANTE DELLA VOCE DI SINATRA?

Pensando ad un percorso di evoluzione del timbro vocale in America era impossibile astenersi dal prendere in considerazione Frank Sinatra per quello che rappresenta nell’immaginario collettivo (il suo soprannome The Voice parla da solo) e per quello che era il suo bagaglio culturalmente: avendo origini italiane è riuscito ad innestarsi in un nuovo territorio di musica popolare portando con se parte del bagaglio timbrico della tradizione lirica italiana.
Francis Albert Sinatra (Hoboken 12 Dicembre 1915 – West Hollywood 14 Maggio 1998), figlio di genitori italiani emigrati negli Stati Uniti, appartiene a quella categoria di cantanti a metà tra i cantanti di musica popolare ed i cantanti jazz noti come crooner, termine traducibile in italiano con la definizione di cantante confidenziale. Il termine, in effetti, ci aiuta nell’analisi del nostro percorso riportando alla mente il fatto che, data l’invenzione del microfono, questi cantanti non furono più obbligati ad avere un suono imponente e per forza di cose standardizzato, ma potevano giocare con la loro voce facendo perno su tutte quelle qualità vocali più vicine al parlato e che comprendevano il sussurro, lo sbadiglio e così via.
Sinatra decise di voler fare il cantante dopo ave ascoltato Bing Crosby alla radio e ne fu sicuramente il degno erede portando con se parte di quel tipico timbro liricheggiante che la tradizione statunitense aveva ormai assorbito ma con un atteggiamento vocale molto più variopinto atto a colorare le sue interpretazioni rendendole estremamente convincenti. La grandezza di Sinatra effettivamente sta anche nel suo essere attore e uomo di spettacolo, fondendo tutte queste sue attitudini con il suo timbro caldissimo riesce a trasportare l’ascoltatore dal semplice ascolto di una canzone all’ascolto di una esperienza di vita effettivamente vissuta.



I legami di Frank Sinatra con il jazz si situano su due livelli distinti pur non essendo lui un improvvisatore di scat. Esiste, in primo luogo, un puro legame di fatto per via di alcuni suoi accompagnatori presi individualmente (per molto tempo pretese che Harry Edison fosse presente durante le sedute di incisione), delle orchestre scelte (Count Basie, Duke Ellington, Buddy Rich, Woody Erman), o ancora degli arrangiatori (Johnny Mandel, Billy May, Quinci Jones, Neal Hefti). In secondo luogo, nel modo stesso di concepire il canto: su tempo rapido o di mezzo Frank swinga e, nelle ballad in lui particolareggiate come in nessun altro, utilizza un feeling che è quasi quello dei grandi improvvisatori. Se capita non rifugge dal correre qualche rischio nel fraseggio o dall’introdurre qualche variante alla maniera d’uno strumentista.
Il timbro baritonale di Sinatra è pervaso da un gran numero di armoniche che, accompagnando le note fondamentali, garantiscono spessore e calore al suo timbro che viene poi spesso arricchito da attacchi vocali differenziati in base al tipo di interpretazione che voleva far arrivare. La laringe sempre lievemente abbassata gli consentiva uniformità nel timbro ma la mancanza di spinta del fiato evitava la sensazione di voce troppo ispirata alla lirica e il vibrato molto presente non era quasi mai sostenuto ma veniva lasciato sempre scendere in dinamica evitando di diventare troppo presente e opprimente. La caratteristica recitativa della sua voce emerge soprattutto quando decide di sporcare il suo timbro con venature di asprezza più marcate usando il filtro denominato twang dalla tecnica vocale Voicecraft (quindi il suddetto restringimento della laringe che conferisce punta e asprezza alla voce) e con l’introduzione massiccia del fiato, tutte caratteristiche comuni alla voce parlata che non fanno altro che rendere più attendibile la storia del brano di turno che Sinatra cantava.

Si può dire che forti erano ancora in Sinatra le fondamenta timbriche belcantistiche pur non avendo un suono squillante e usando stratagemmi resi possibili dai microfoni per differenziarsi dalla lirica. Rimane comunque un timbro unico soprattutto per il calore complessivo in tutta l’estensione e per la capacità affascinante di essere interpretativamente convincente.






RISPOSTA: LA SUA CAPACITA' DI ESSERE CONVINCENTE IN RELAZIONE AL TESTO CANTATO. VISIONARE IL VIDEO PER AVERE UN IDEA PIÙ CHIARA DI QUELLO CHE INTENDO NEL CONFRONTO TRA ROBBIE WILLIAMS E FRANK SINATRA. 

sabato 20 aprile 2013

L'evoluzione del timbro vocale 3

Il timbro vocale dopo Armstrong

DOMANDA: COS'E' LO SCAT?


«Una voce di ghiaia e di fango, di una bellezza scabra e ruvida, fuori da ogni canone e convenzione», è così che Luciano Federighi descrive la voce di Armstrong e come dargli torto dopo aver ricordato quali erano gli stereotipi vocali dell’epoca?
Louis Armstrong (New Orleans 4 agosto 1901 – New York 6 luglio 1971) fu un vero e proprio sdoganatore vocale in quanto la sua voce segnò lo spartiacque tra il passato belcantistico e il futuro del canto moderno. Anche nel suo caso quello che poteva sembrare un punto debole fu in realtà l’arma vincente che lo contraddistinse da tutti gli altri cantanti ovvero una non naturale predisposizione al canto pulito e limpido.
Armstrong, infatti, era dotato di un timbro roco e sforzato che, da persona intelligente qual era, decise anche di esasperare creando un mix esplosivo tra il suo personaggio bonaccione e sempre sorridente, utile maschera da indossare per passare indenne sotto gli occhi razzisti dei bianchi che non avrebbero accettato lezioni da un nero che si fosse presentato come un serioso innovatore musicale, e la sua voce. Una voce certamente inimitabile ma che invitava, con la sua trascinante particolarità, ad essere imitata e omaggiata da tutti, non solo dai cantanti, ma anche dagli imitatori dei cantanti o da musicisti che giocosamente esponevano un tema alla maniera di Armstrong. Anche  in Italia, nella patria del bel canto, la voce di Armstrong veniva percepita così fuori dagli schemi che fu imitata per anni e non solo nell'ambiente del jazz, così come succedeva con quella di Jerry Lewis  che non era altro che la voce del suo doppiatore italiano: Carlo Romano.
Così nel film Hello Dolly Barbra Streisand duetta con Louis Armstrong nella canzone che dà il titolo al film e, ridendo come per confermare che la maschera da buontempone e la simpatia che ispirava Louis nel prossimo erano una grandissima pubblicità per lui, imita la sua voce baritonale. Il timbro di Armstrong, probabilmente condizionato da qualche disfunzione cordale, riusciva ad essere si graffiato ma non aggressivo, anzi era coinvolgente e rassicurante, la peculiarità roca veniva data dalla vibrazione dei muscoli tiroaritenoidei, detti anche muscoli vocali, determinano con la loro contrazione un accorciamento e conseguente allargamento delle corde vocali che messi in vibrazione con grande sforzo producono il suo caratteristico colore timbrico. Questo particolare tipo di fonazione, richiedendo una grande spinta del fiato, è difficilissimo da sostenere e soprattutto doloroso anche se controllato con sapienza come faceva Armstrong, anche questa volta però un punto debole andò a arricchire quella che si può tranquillamente definire la poetica vocale di Louis facendogli prediligere l’aspetto ritmico staccato al legato in voga all’epoca.
A testimonianza dello sforzo impresso alla colonna d’aria smossa da Armstrong per far entrare in vibrazione i muscoli tiroaritenoidei, si può osservare che per produrre il vibrato era costretto a muovere la testa velocemente in su e in giù dato che un suono sforzato, per definizione, non può trovare una vibrazione naturale a livello laringeo avendo i muscoli fono-articolatori tesi a supportare lo sforzo e non avendo quindi la mobilità necessaria per poter oscillare impedendo il vibrato laringeo. Anche il questo caso (sono più propenso a pensare che l’intelligenza di Armstrong fu molto più determinante di quello che si possa pensare del caso) un difetto divenne caratteristica: la scuola belcantistica imponeva nel suo stile un vibrato pressoché costante (in musica si sa che abusare di un mezzo interpretativo è come eliminarlo del tutto perché non lo si fa risaltare negando il confronto con il suo opposto, in questo caso la nota tenuta) mentre Armstrong lo liberava da questa prigionia sviscerandolo solo nei punti che desiderava sottolineare.
Altra caratteristica che Armstrong inserì nel suo stile andando a modificarne il timbro fu l’uso dell’aria, discostandosi ancora di più dai paradigmi passati della tecnica vocale che imponevano un suono puro eliminando del tutto il rumore del fiato, Louis lo inserì copiosamente quasi al termine di ogni sua frase cantata e in maniera ancora più evidente nelle dinamiche più tenui. Con il grande lavoro muscolare che sosteneva per cantare riusciva a riscaldare anche quel tipo di suono normalmente freddo e privo di energia  rendendolo dolce e per niente fastidioso, permeando così il suo timbro di umanità. Il messaggio vocale col quale Armstrong si presentava al pubblico era sostanzialmente quello di non essere un cantante elevato e irraggiungibile se non dopo anni di severi studi tecnici ma un nuovo tipo di cantante vicino alla massa che ne incarnava le caratteristiche più affabili e divertenti mettendo tutto ciò sempre al servizio dell’interpretazione dei brani che non venivano sviliti ma anzi valorizzati da questo nuovo stile vocale: il canto moderno. Armstrong diede vita così anche ad una vera e propria rivoluzione culturale e sociale capendo prima di tutti l’importanza di raccogliere consensi facendo si che il pubblico si riconoscesse in lui. Il fatto che fosse afroamericano poi certamente non è da sottovalutare.

È interessante, inoltre, notare quanto Armstrong sia uno spartiacque che riusciva ad incarnare in se sia la conservazione timbrica del passato sia la rottura più totale protendendo verso il futuro, è possibile notare questo confrontando il suono della sua voce con quello della sua tromba. Louis fu un noto appassionato di lirica (era un accanito collezionista di dischi di soprani) e incorporava la tecnica vocale lirica, squillante ed acutista, nel suo modo di suonare innovando di molto la tecnica ed il fraseggio trombettistico, al contempo però manifestava una sorta di schizofrenia timbrica facendo l’esatto opposto con la sua voce di roca e scherzosa attirando le simpatie dei musicisti, affascinati dal suo modo di suonare, e dei non addetti ai lavori con il suo timbro vocale e le sue mimiche facciali.
Anche quest’ultime infatti svolgevano la doppia funzione di intrattenimento visivo sopperendo anche alla necessità di sostegno di un suono tanto amabile all’esterno quanto scomodo all’interno. Spesso accompagnava alle sue smorfie cambiamenti timbrici dettati dall’uso sapiente dei suoi filtri vocali: altro elemento di rottura col passato nel quale il timbro doveva essere uno e sempre omogeneo sia nel grave che nell’acuto.
Altra incredibile innovazione, probabilmente la più importante, che portò Louis Armstrong fu l’invenzione del linguaggio improvvisativo vocale: lo scat. Certamente negli anni venti era già in voga tra gli appassionati il canticchiare tramite sillabe gli assoli dei propri dischi preferiti ma Armstrong, anche grazie alla sua popolarità, portò alla ribalta questa prassi facendola diventare parte del bagaglio di ogni buon cantante jazz. Leggenda narra che nel 1926, durante la registrazione di Heebie Jeebies con il suo gruppo The Hot Five, si trovò a dover improvvisare una parte del brano con sillabe inventate perché gli cadde il foglio con il testo dal leggio. Improvvisamente la voce non aveva più il solo scopo di narrare il testo ma venne liberata dalle catene della parola  consegnandola a pieno titolo al mondo della musica strumentale. Da quel momento in poi ogni cantante di scat userà una propria sillabazione caratteristica (scat words) che, insieme con il timbro della voce, gli danno una caratterista di riconoscibilità immediata in più. Come giustamente afferma Bob Stoloff: «Louis Armstrong diede voce al jazz».
Riassumendo possiamo dire che un musicista nero mettendo da parte il suo orgoglio riuscì a farsi conoscere al mondo portandosi dietro un bagaglio di contraddizioni timbriche e culturali, tanta furbizia e un talento sconfinato innovando tra gli altri il mondo del canto che da tempo attendeva di essere scosso da un vero e proprio terremoto che portò ghiaia e fango ed un nuovo modo di concepire la voce nella modernità.



RISPOSTA: LO SCAT E' UNA FORMA DI IMPROVVISAZIONE VOCALE CHE SFRUTTA L'USO DI SILLABE PRIVE DI SIGNIFICATO PER DARE RITMO ALLA LINEA MELODICA VOCALE IMPROVVISATA


lunedì 1 aprile 2013

L'evoluzione del timbro vocale 2


Le 2 fasi del timbro Jazz: il timbro prima di Armstrong

DOMANDA: QUALE STRUMENTO PERMISE ALLA VOCE DEL CANTANTE MODERNO DI STACCARSI DALL'INFLUENZA BELCANTISTICA?

Tra i vari affluenti che, sfociando in un unico bacino, hanno dato vita all’oceano che oggi definiamo jazz il meno blasonato e considerato dai non addetti ai lavori è certamente la musica classica. Difficilmente si accosta il mondo severo dell’interpretazione delle volontà del compositore di musica classica con la libertà dell’improvvisazione jazz, soprattutto se non si tiene conto di quanto rigore sia invece necessario nella preparazione di un musicista jazz.
Se andiamo a parlare dell’aspetto vocale di questi due universi, musica classica e jazz, i paragoni sembrano ancora più improponibili, sensazione dettata da fattori pressoché evidenti: tralasciando il repertorio e il fatto che il cantante jazz spesso e volentieri improvvisa su di un brano cambiandone anche il tema, la caratteristica che più di tutte allontana questi mondi è proprio quella timbrica. Nel fare questo ragionamento ovviamente non si potrà parlare di tutte le vocalità che hanno composto il firmamento delle voci jazz ma dovremo attuare una sommaria ma comunque significativa semplificazione.
Il cantante lirico ha un timbro piuttosto standardizzato dovuto alla sua tecnica vocale che rende difficile per un non appassionato il riconoscimento di due diversi cantanti alle prese con la stessa aria, il cantante jazz invece enfatizza il proprio timbro cercando di far spiccare il più possibile la sua personalità. Questo è causato dalla cosiddetta formante del cantante ovvero la concentrazione degli armonici del cantante lirico nella fascia di frequenza attorno ai 3 kHz con lo scopo di occupare la gamma dello spettro sonoro non impegnato dall’orchestra e quindi di rendersi udibili con più facilità, un cantante jazz invece cercherà di distribuire le proprie armoniche su tutto lo spettro in modo da avere un timbro meno pervasivo e direzionato ma più avvolgente.
  


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Altre differenze che saltano subito all’orecchio risiedono sicuramente nel volume vocale, il cantante lirico per tradizione canta senza amplificazione e deve riuscire a farsi sentire fino alle ultime file del teatro e per far ciò dovrà ricorrere ad una serie di stratagemmi che elimineranno necessariamente la possibilità di usare mezzi interpretativi quali i respiri ed i sospiri; un cantante jazz invece predilige l’agilità andando quindi a ridurre il peso vocale e sfruttando spesso quei suoni sospirati che di fatto lo caratterizzano.
Nonostante sembrino due realtà in antitesi, all’inizio dello sviluppo del jazz erano profondamente legate in quanto l’America guardava con ammirazione all’Europa, e quindi anche all’Italia, per la sua grande tradizione musicale e, soprattutto, per le opere liriche.
La prima opera rappresentata negli Stati Uniti fu Sylvain di André Grétry il 22 maggio 1796 a New Orleans dopo la quale esplose una vera e propria febbre da teatro dell’opera e spesso le compagnie operistiche europee di successo facevano tournée negli Stati Uniti riscuotendo grandi successi e appassionando i cuori dei musicisti non solo per quel che riguarda l’aspetto armonico ma anche melodico. Di fatto, il break di tromba di Armstrong in New Orleans Stomp del 1927 per esempio non è altro che una sagace citazione dell’aria di Maddalena del quartetto del Rigoletto.
Certamente anche per quel che riguardava il canto l’influenza belcantistica fu enorme erigendosi a vero e proprio stilema dell’unico modo di cantare. Ecco quindi che non solo i professionisti lirici cantavano con la classica voce impostata ma anche la gente comune inglobava questo stile nella vita di tutti i giorni. Il risultato fu che i primi cantanti di musica popolare altro non erano che imitazioni timbriche dei cantanti lirici, le caratteristiche ricercate erano un suono rotondo sempre proiettato, chiaro dal sapore tenorile, pesante ma senza potenza dovuta alla mancanza di uno studio serio della tecnica lirica.
Tutto questo purtroppo portò alla creazione di generazioni di cantanti liricheggianti privi di personalità e stilisticamente freddi ai nostri orecchi. Quello che però fu il loro punto debole si rivelò essere la chiave di volta per uscire da questa situazione di sudditanza nei confronti della lirica, ovvero la mancanza di potenza.  Questa carenza portò ad affidare la propria voce al microfono, strumento inventato prima per usi di telefonia nel 1878 poi adattato alla registrazione sonora e, quando fu dotato di capacità non solo di trasmissione ma anche di amplificazione, per veicolare la voce dal vivo.
Ecco allora che la gabbia del volume fu finalmente aperta e i cantanti potevano essere liberi di dosare in maniera diversificata la propria voce senza per forza essere sempre declamatori ed impostati. Questo, tuttavia, non bastò perché la sudditanza al timbro classico era ancora molto forte e il canone di bello dell’epoca rispondeva sicuramente ancora agli stilemi lirici. Solo un vero e proprio terremoto avrebbe potuto rompere questo legame e far progredire il canto jazz finalmente per una propria strada a se stante: questo terremoto avvenne e portò il nome di Louis Armstrong.

continua...



RISPOSTA: LA VOCE DEL CANTANTE MODERNO SI STACCO' DALL'IDEALE BELCANTISTICO GRAZIE AL MICROFONO